atteso che i beni non attraversano più spazi doganali, ormai soppressi per gli Stati membri. Essendo d’altra parte necessario, per ovvi motivi contabili,” registrare comunque la fattura con tutte le indicazioni in essa contenute, compresa la esposizione dell’IVA, alla neutralizzazione della scrittura a credito dell’operatore/importatore intracomunitario, la legge ha dato rimedio con il “reverse charge” e cioè con la scritturazione della stessa fattura anche nel registro delle vendite in modo che la operazione contabile resti neutra ma al tempo stesso resti traccia contabile della movimentazione. Sarà poi in sede di rivendita dei beni importati che lo Stato recupererà l’IVA perché la transazione comporterà l’applicazione, la contabilizzazione e l’incasso dell’IVA da parte dell’operatore in sede di cessione. Questo stesso istituto è stato poi esteso alla commercializzazione di metalli preziosi. La legge 17.01.2000 n. 7 (art. 3 co. 4), decorrenza 01.01.00, ha mutuato al D.L. 331/93 la disciplina anche “per le cessioni imponibili di oro da investimento” …. nonché “per le cessioni di materiali d’oro”. Lo stesso art. 3 co. 10 ha riservato ancora la stessa disciplina alla “importazione di argento, in lingotti o grani (di una certa purezza)”. Le sole cessioni di oro in lamina sono restate esenti da IVA (salva diversa opzione) ai sensi del Part. 10/633 n. 11 come modificato dall’art. 3 co. 11 legge 17.01.00 n. 7. Per il resto vale la novella disciplina del co. IV il quale ha attratto ad imponibilità IVA le altre tipologie preziose. Infatti, il comma IV dell’art. 3 L. 7/2000 ha disposto, analogamente a quanto previsto nei riportati artt. 46 e 47 D.L. 331/93 che ” …. al pagamento dell’imposta è tenuto il cessionario… “. Per questo adempimento è disposto ancora il procedimento contabile del “reverse charge” consistente appunto nel completamento della fattura d’acquisto a cura del cessionario, con la indicazione dell’addebito dell’IVA e della relativa aliquota. La fattura del cedente pertanto non conterrà più la indicazione dell’esenzione ex art. 10/633 sub 11, ma la indicazione del V comma dell’art. 17/633 (che è comma aggiunto, come detto, della legge 4/2000). Vien da chiedersi la motivazione della particolare disciplina. E cioè: perché non si è disposto che l’acquisto intracomunitario senza IVA si registrasse così com’è,
per il solo imponibile, e con la indicazione della inapplicabilità dell’IVA ex art. 17/633 co. IV? La motivazione è squisitamente tecnica, dacchè l’istituto dell’IVA conosce diverse tipologie di operazioni ed esse non restano fine a se stesse, in quanto influenzano la liquidazione dell’imposta da versare, in modi differenti. Così la presenza di operazioni attive esenti incide nel calcolo dell’IVA detraibile; le operazioni non imponibili, le operazioni non soggette ad IVA e le operazioni con aliquote differenziate esercitano altri riflessi. Tenuto conto che le introduzioni intracomunitarie dei beni non sono deputate, per istituzione, a modificare il regime della liquidazione dell’IVA in ciascun paese e l’unica caratteristica (provvisoria, fino a quando la disciplina non andrà a regime con la tassazione nel paese di produzione!) è quella che alle frontiere comunitarie non devono esistere ostacoli alla libera circolazione dei beni, come fosse uno il Paese per tutti gli appartenenti alla comunità; si è fatto ricorso alla “finta” applicazione dell’IVA all’introduzione, senza effetti finanziari per Stato ed operatori. La tecnica della contabilizzazione doppia “reverse charge”, regge allo scopo, ma è visibile la funzione contabile che si traduce in mera formalità. Fermo restando che, come tutte le formalità, la inottemperanza puntuale comporta sanzioni specifiche che la legge istitutiva 331 affidò all’art. 54.
*Dottore Commercialista
Giovanni Sbrescia
Note:
1. L’obbligo della disciplina deriva dalla Direttiva C.E.E. n. 91/680 come modificata dalla 92/111, in modificata della precedente VI direttiva del 1977.
2. Le innovazioni si erano già avviate con i DD. LL. 31.12.1992 n. 513, 02.03.1993 n. 47, 28/04/1993 n. 131, 30.06.1993 n. 213, ma nessuno dei quattro fu tempestivamente convertito in legge.
Il “reverse charge”, di chiaro etimo inglese, e di affidabile traduzione “opposta imputazione”, è istituto di recente introduzione (1) nella normativa fiscale italiana ed è specificamente indirizzato alle scritture contabili IVA per talune circostanze operativo-fiscali. Esso si compendia in un caratteristico procedimento scritturate del rapporto economico-fiscale. La sua prima (2) comparsa legislativa risale al 1993 e vi si ricorse per ovviare alle esigenze di disciplinare la contabilizzazione di operazioni commerciali intracomunitarie di acquisti (art. 38 co. II e III D.L. 331/93), le quali, pur riflettenti scambi commerciali, imponibili IV A in sede nazionale, dovevano essere eseguite senza applicazione dell’lVA, alla loro introduzione nel nostro paese. La disciplina affidata al D.L. 331/1993 (D.L. 30.08.1993 conv. in legge 29.10.1993 n. 427- G.U. 255 del 29.10.1993), dispone specificamente all’art. 46 che “la fattura relativa all’acquisto intracomunitario deve essere numerata e integrata dal cessionario …. con la indicazione …. dell’ammontare dell’imposta, calcolata secondo l’aliquota dei beni ….” . Questo tipo di operazione diversamente da quanto avviene per i beni provenienti dai paesi non comunitari, non comporta il versamento dell’IVA all’importazione (come invece avviene per il tramite della dogana, per gli acquisti non comunitari), ma si ripete la sola integrazione della fattura con i dati IVA. L’art. 47/993 dispone poi della registrazione delle operazioni intracomunitarie in questi termini: “Le fatture relative agli …. Acquisti intracomunitari …. devono essere annotate … distintamente nel registro di cui all’art. 23/633 (n.d.r.: delle fatture emesse) o 24/633 (n.d.r.: delle vendite)”. All’ultimo periodo dello stesso art. 47 comma I è disposto: “Le fatture devono essere annotate distintamente …. anche nel registro di cui all’art. 25 … (n.d.r.: fatture acquisti)”. La particolarità delle descritte scritturazioni è nel fatto che l’IVA all’introduzione comunitaria dei beni non dà luogo a “vero” credito, per cui le scritture ed i rapporti col fisco non devono evidenziare un credito dell’impresa importatrice comunitaria, nulla essendo stato versato da essa, né all’operatore dell’altro Stato comunitario né all’Erario,